“L’incontro tra saperi”, il progetto etnoclinico che cura la salute mentale dei migranti
«Sogno una psicoterapia compatibile con il mondo come sta andando: un mondo aperto, poliglotta, politeista, cosmopolita, ricco di cose e di esseri che non intendono scomparire». (Tobie Nathan)
Le migrazioni sono spesso al centro del dibattito politico e sociale, e ancora più spesso per le motivazioni sbagliate. Sebbene qualche governo sia ancora convinto di poter ‘fermare’ le migrazioni, la storia dell’uomo e la realtà che ci circonda raccontano un’altra storia. Le persone si spostano, l’umanità migra da sempre, le nazioni sono ricche di comunità di diversa provenienza.
Ma la migrazione ha anche un impatto significativo sulla salute mentale degli individui, causando stress, ansia, depressione e altre difficoltà psicologiche. In Italia vivono e lavorano almeno 15.000 Burkinabè, una comunità nota per la sua laboriosità e serietà, ma che tuttavia, seppur necessitando di un supporto psicologico, per un sostegno al vissuto migratorio, non riesce ad accedere ai servizi di salute mentale disponibili sul territorio. Questo fenomeno riguarda la maggior parte degli stranieri in Italia, ma nel caso della popolazione burkinabè emergono maggiori difficoltà, legate ad una scarsa conoscenza del contesto culturale e linguistico di origine. La letteratura sanitaria, antropologica e di approccio alla malattia è, ad oggi, ancora molto povera.
Vi siete mai chiesti: “Se vivessi all’estero come vorrei essere curato?” Colonizzato dal sapere locale o ascoltato nell’ identità e cultura?
In questo scenario, nasce e cresce il progetto “L’incontro tra saperi: la medicina tradizionale in Burkina Faso”. A cura di un’equipe composta da due psicologhe, un medico, un antropologo e un mediatore linguistico-culturale, tutti formati in etnoclinica, all’incontro con l’altro nel suo insieme, all’osservazione e all’ascolto degli esseri “visibili e invisibili”, alle radici culturali e ai propri sistemi di cura tradizionali.
L’approccio etnoclinico basato su una visione interdisciplinare e interculturale permette di aprirsi al sapere della persona nella sua totalità.
Ho intervistato le dott.sse Elisabetta Cannas e Laura Ruggieri (psicologhe) e la dott.ssa Paola Giurdanella (medico), specializzande in etnopsicoterapia.
Com’è nato “L’incontro tra saperi?”
Siamo tre donne e professioniste che quattro anni fa si incontrano alla scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica ad orientamento etnopsicoterapeutico. Ci conosciamo, ci confrontiamo e ci supportiamo. Il lavoro dello psicoterapeuta è complesso, necessita spesso di momenti di confronto e supervisione. Il nostro lavoro ci porta a conoscere quotidianamente persone che hanno affrontato una migrazione, sovente dolorosa e traumatica, che necessitano di un’assistenza terapeutica e una presa in carico integrata, vale a dire non solo psicologica, ma anche sociale e sanitaria. Ci occupiamo di assistenza terapeutica in campi profughi, centri di accoglienza, carceri, ambulatori di medicina. Ci confrontiamo spesso con le difficoltà di comunicazione e negoziazione tra i sistemi di cura tradizionali delle persone che incontriamo ed i sistemi di cura occidentali. “L’incontro tra saperi” nasce dalle nostre esperienze sul campo, dall’incontro diretto con persone portatrici di dolori e sofferenze, ma anche di saperi e tradizioni che non possono essere escluse dal nostro lavoro. Ciò pone in evidenza come la clinica non possa prescindere dalla ricerca. Il sapere sul mondo dell’Africa sub-sahariana è ampio e ciò che la letteratura etnografica offre al riguardo è maggiormente orientato verso alcuni Paesi quali il Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Benin. Le nostre esperienze cliniche e di confronto hanno permesso di far emergere alcuni elementi rispetto alle migrazioni provenienti dal Burkina Faso: in Italia sono presenti circa 14 mila persone burkinabè, la conoscenza di tale popolazione è scarsa e, spesso, negoziare un sistema di cura risulta complesso. Inoltre, le circa 60 etnie, le molteplici lingue, e la geopolitica del Burkina Faso, negli ultimi trent’anni, hanno permesso una conoscenza di tale paese alquanto ridotta.
“L’incontro tra saperi” nasce da un interesse clinico, da un desiderio di conoscenza. Piero Coppo fu il direttore della nostra scuola di specializzazione, nonché docente e colonna portante dell’Etnopsichiatria italiana, in uno dei suoi libri, sosteneva: “Chiedere è per sapere, sapere è per fare” (Coppo P., “Guaritori di follia”, 1994, Boringhieri). Progettiamo così di intraprendere un progetto di ricerca sul campo.
Cos’è l’etnoclinica e come può aiutare le persone? Un’équipe etnoclinica da quali figure professionali dovrebbe essere composta e perché?
Siamo negli anni ’50 quando Georges Devereux, antropologo e psicoanalista, divenuto uno dei padri fondatori dell’Etnopsichiatria, attraverso una profonda riflessione clinica generata dalle sue ricerche, gettava le basi della metodologia etnoclinica. Proposte metodologiche che diventeranno concreti dispositivi di interazione clinica grazie al lavoro di Tobie Nathan. Come prendersi cura di una persona proveniente da un mondo culturale altro? Quali segni ci dicono che è in uno stato di sofferenza? Le culture fabbricano le persone, mettono in forma le sofferenze. In ogni contesto culturale vi sono strategie di individuazione, denominazione, elaborazione e trattamento delle malattie. La cura della sofferenza non può esimersi dall’analisi di tali aspetti. Ed è per tali ragioni che fare etnoclinica vuol dire creare i presupposti affinché antropologi, mediatori linguistico-culturali, etnopsicologi, medici possano dialogare e comprendere, finanche legittimare sistemi di cura altri. Un approccio integrato permette di prendersi cura delle persone considerando le appartenenze, le teorie ontologiche e le condizioni geopolitiche dei contesti di origine. Questo può predisporre nuovi scenari di cura, oltre che di integrazione nei Paesi di accoglienza.
Quali sono, secondo la vostra visione, gli step indispensabili che le istituzioni dovrebbero mettere in atto?
In diversi territori italiani sono stati implementati progetti etnoclinici di enorme portata, in termini di esiti e benefici non solo per le persone che vi accedono ma anche per la sostenibilità dei territori stessi. Tali progetti sono, tuttavia, soggetti a strumenti finanziari che ne definiscono la temporalità e che, quindi, sono limitati nel tempo e non integrati totalmente nelle pratiche operative istituzionali. Potremmo definirli “servizi straordinari”, presenti in pianta stabile in poche realtà italiane. Pensare che l’approccio alla cura possa essere un qualcosa di limitato ad un breve lasso di tempo, in particolare per ciò che concerne la salute mentale, è una visione limitata e legata al puro sapere medico dove l’uso della farmacologia elimina esclusivamente il sintomo. L’etnopsicoterapia permette di ascoltare la persona nella sua totalità, di conoscerla nella sua fabbricazione culturale e di creare una compliance al trattamento negoziando con il paziente una cura senza la presunzione di una “colonizzazione terapeutica” capace di generare ulteriori fratture identitarie. Idealmente, avrebbe senso che, l’etnoclinica, approdi nei servizi sanitari come parte integrante delle metodologie. Una formazione etnoclinica nei “servizi ordinari” permetterebbe di comprendere le situazioni di vulnerabilità considerando le rappresentazioni culturali, interrogando le dimensioni socio-culturali, nonché i vissuti interni delle persone che giungono in consultazione. Pensiamo che l’etnoclinica debba poter comunicare con le politiche territoriali affinché possa esservi un cambiamento negli approcci. Prima ancora di definire una serie di step è necessario sviluppare un lavoro di rete, in cui i rappresentanti istituzionali siano presenti ed accolgano la possibilità di generare approcci multidisciplinari e dispositivi di cura integrati.
Possiamo tutti partecipare a questo importante progetto, donando qui e condividendo!
Micaela Paciotti