Un italiano in Giappone o un giapponese in Italia?

Un italiano in Giappone o un giapponese in Italia?

“Rimpatriati – Expat”: la storia di Giorgio

Io non ho lasciato il Giappone perché mi ero stufato del Giappone, anzi stavo proprio bene. Il legame col Giappone è fortissimo. Ho intenzione di passare lì almeno due mesi all’anno, anche perché comunque ho costruito rapporti umani, ho un grande affetto per alcuni luoghi e alcune persone, quindi non voglio che tutto questo vada perduto per una distanza geografica.

Giorgio

Giorgio è un ragazzo molto alto, dalla corporatura slanciata e, per questo, non passa inosservato. Indossa una montatura di occhiali da vista squadrata e nera, un cappotto scuro e, quando cammina, ha l’andatura tipica dell’osservatore curioso che ogni tanto si ferma a scrutare un dettaglio o un particolare.

Mentre parla lo immagino passeggiare tra le vie colorate di Venezia, quelle trafficate di Milano e tra i ciliegi giapponesi in autunno con i loro caldi rossi e marroni.

Giorgio, vuoi raccontarmi chi sei?

Sono Giorgio, ho 44 anni e sono Professore ordinario di Diritto comparato all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ho passato gli ultimi tredici anni della mia vita in Giappone, uno a Kyoto e dodici a Nagoya. Anche in Giappone ho sempre lavorato all’Università.

Come ci sei finito in Giappone? Da dove partivi?

Io sono nato e cresciuto a Milano, ho studiato nella mia città. Poi quando sono entrato nel mondo del lavoro ho iniziato facendo il professionista, ovvero l’avvocato d’affari, ma mi sono reso conto che quella non era la mia strada in quel momento. Era un lavoro totalizzante, non lasciava tempo e spazio per fare altro. Io ero giovane e ho pensato di volermi guardare attorno, fare esperienze fuori, vedere il mondo.

Sono sempre stato affascinato dal Giappone. Ho fatto un dottorato di ricerca sul diritto giapponese e poi ho avuto l’opportunità di avere una borsa di ricerca del governo giapponese che doveva durare un anno e mezzo. Invece dopo pochi mesi ho deciso che preferivo rimanere in Giappone. Ho avuto la fortuna di trovare lavoro subito. Quindi ho fatto tutta la mia carriera in questo Paese come docente regolare dell’Università giapponese.

Ma la passione per il Giappone quando è nata precisamente?

Non lo so dire esattamente come sia nata la fascinazione per il Giappone. La mia generazione è stata esposta alla cultura pop giapponese, siamo cresciuti tutti leggendo manga e guardando anime, chi più chi meno. Io non ero un grande appassionato da ragazzino, un grande otaku però mi piaceva, mi incuriosiva. Quando ho deciso che lavorare in ufficio facendo l’avvocato d’affari era una prospettiva un po’ troppo assorbente, soprattutto in età giovane, ho fatto questa riflessione: “Ho studiato diritto, mi affascina il Giappone, proviamo a studiare il diritto giapponese, vediamo cosa ne viene fuori, se mi porta da qualche parte”. Nel momento in cui ho iniziato a studiare la mia conoscenza della lingua era abbastanza ridicola, l’ho imparata poi vivendo e lavorando in Giappone.

Immagino che sia anche difficile imparare a scrivere visto che non utilizzano il nostro alfabeto.

Certo è una delle cose più difficili nell’apprendimento del giapponese. Tutti noi da ragazzi impariamo l’inglese anche ascoltando la musica, giocando ai videogiochi, ma anche prendendo in mano un libro siamo in grado di leggere, pur non conoscendo il significato di tutte le parole. Perlomeno siamo in grado di cercarne il senso su un dizionario. Paradossalmente col giapponese, la lettura – che è un’attività che una persona può fare da sola con l’auto-apprendimento – arriva per ultima. I giapponesi usano una scrittura che combina caratteri di origine cinese e sillabe Hiragana e Katakana, quindi se uno non sa come si scrive un carattere non sa neanche come cercarlo, perché se non sai la pronuncia, non conosci i radicali, non hai idea di dove iniziare. L’apprendimento del giapponese è stato molto difficile per me, anche perché ho iniziato tardi: avevo 31 anni. Avevo già fatto dei periodi in Giappone in vacanza e poi quando si è aperta questa possibilità professionale ho fatto un mese nell’estate 2010, per fare un corso intensivo di lingua, che mi ha permesso giusto di capire la superficie.

Consiglio a chiunque voglia studiare giapponese di iniziare molto presto.

Quali sono le principali differenze culturali che hai trovato tra Italia e Giappone?

Io la prima volta che sono stato in Giappone ero preoccupato. Avevo letto tanto su questo Paese. Ero affascinato e pensavo: “Ma se poi vado lì e non mi piace?”. Invece è stato incredibile: come ho messo piede in Giappone ho avuto la nitida percezione che in quel posto avrei potuto vivere e infatti così è stato. Ci sono tante differenze, però mi sono trovato sempre bene.

Puoi fare degli esempi?

In Giappone non devi mai alzare la voce per ottenere qualcosa, ma questo vuol dire che non puoi farlo quando vorresti lamentarti. Tutti tendono a rispettare le regole, non solo quelle di base della civiltà (come aspettare in fila e non parlare al telefono sui mezzi pubblici) ma anche una serie di regole sociali che sono più o meno facili da comprendere e padroneggiare. Il primo anno, quando ero a Kyoto – una città molto tradizionale che come Venezia e Firenze ha il problema del turismo di massa – venivo immediatamente percepito come uno straniero, un turista, un visitatore, qualcuno che sarebbe stato lì temporaneamente. Questo mi creava qualche disagio.

Ci sono poi dei codici di comportamento a Kyoto che io non conoscevo. Quando si va a casa di qualcuno, pratica già di per sé anomala, gli abitanti di Kyoto hanno un modo per dire ai propri ospiti “è ora che ve ne andiate”. Sostanzialmente ti offrono il tè in una certa maniera. Io non conoscendo il codice segreto ho detto “ah che gentile”. Il mio amico giapponese mi ha preso per un braccio e mi ha detto: “andiamo, siamo stati troppo”. È facile fare gaffe.

Poi dopo un anno hai lasciato Kyoto…

Ho trovato lavoro all’Università di Nagoya. L’ho trovato per caso. Io non avevo contatti a Nagoya e non ci ero neanche mai stato. Nagoya è una grande città industriale più o meno a metà strada tra Osaka e Kyoto ed è la città dove ha sede la Toyota, tra le altre grandi industrie. Ho cercato su Google e ho trovato un annuncio di lavoro dell’università che cercava docenti per un programma internazionale. Ho fatto domanda e sono stato assunto. Questa posizione per la quale avevo firmato un contratto di cinque anni è diventata un posto di ruolo e quindi sono diventato un docente giapponese.

Anche nell’ambito universitario c’era tutta una serie di regole non scritte che non conoscevo. In Giappone fanno tantissime riunioni per dare un’immagine di collegialità e compartecipazione, quindi è molto importante non mancare a questi appuntamenti. Io ogni tanto, viaggiando per convegni per altri incarichi, chiedevo di saltare queste riunioni e ogni tanto mi veniva detto “nessun problema, ma ci mancherebbe”, altre volte la mia richiesta veniva accolta con sdegno totale. Mi dicevano: “ma come ti permetti? Questa riunione è importantissima”. Il punto era che per me queste riunioni erano tutte uguali, non riuscivo a capirne la differenza. Imparare i meccanismi da insider ha richiesto tempo e pazienza.

A Nagoya dal punto di vista culturale come ti sei trovato? Ci sono differenze con Kyoto?

Il Giappone ha una forte identità locale. Ad esempio la cucina di Nagoya e quella di Kyoto sono totalmente diverse. Anche la gente è diversa.

Kyoto è una città tradizionale, aristocratica: ci sono famiglie che vivono lì da alcune centinaia di anni.

Nagoya è stata completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale, quindi è una città nuova. Inoltre è una città molto grande, ci sono più di tre milioni di abitanti, però la sensazione è quella di essere in campagna. I quartieri hanno quasi un’identità da villaggio. Paradossalmente nonostante Nagoya sia molto meno internazionale di Kyoto è una città piuttosto amichevole. Ci sono stati degli episodi buffi. In giapponese non c’è un modo convenzionale per dire “ehi tu”. Se a qualcuno cade qualcosa non si può dire “ehi tu hai perso qualcosa”. Ci si rivolge alla gente in base al ruolo sociale o all’età, per cui se hai davanti una vecchia signora le dirai “scusa nonna ti è caduto questo”. Io in quanto professore venivo chiamato “Sensei“. Una vecchia del vicinato non sapeva che lavoro facessi, non sapeva indovinare la mia età e la prima volta che mi ha visto mi ha chiamato Sig. Bianco, perché ero l’unico caucasico che abitava nella zona. Questo è un episodio carino, non c’era razzismo nell’espressione usata dalla signora.

Immagino che a Nagoya avessi trovato la tua dimensione sociale oltreché professionale. Come mai poi hai deciso di tornare in Italia?

La risposta breve a questa domanda complessa è “i genitori anziani”. Il Giappone è bellissimo ma molto lontano e quindi era diventato insostenibile stare dietro alle questioni di famiglia. La cosa buona è che io già da molti anni collaboravo con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, che ha un grande focus su Cina e Giappone, quindi io tutti gli anni facevo tre settimane a Venezia in qualità di visiting professor per insegnare diritto giapponese agli studenti di lingua. Quindi Ca’ Foscari aveva un interesse a stabilizzare questo insegnamento e a potenziarlo, io avevo la necessità di tornare e il progetto accademico mi convinceva: è stata una fortunata sinergia.

Io non ho lasciato il Giappone perché mi ero stufato del Giappone, anzi stavo proprio bene. Il legame col Giappone è fortissimo. Ho intenzione di passare lì almeno due mesi all’anno, anche perché comunque ho costruito rapporti umani, ho un grande affetto per alcuni luoghi e alcune persone, quindi non voglio che tutto questo vada perduto per una distanza geografica.

Com’è stato il rientro?

L’Italia è casa perché qui sono nato e cresciuto, però anche il Giappone è casa perché è il Paese dove sono diventato grande. È faticoso non sapere quale sia “Casa”. Per esempio quando venivo in Italia per le vacanze non sapevo mai se usare l’espressione “andare in Italia” o “tornare in Italia” in giapponese. Vivevo una dissociazione.

In generale il rientro non è stato traumatico, perché sono tornato in un ambiente conosciuto, familiare in tutti i sensi. Però ecco sì ci sono diversità culturali con le quali devo acclimatarmi. Per il giapponese causare fastidio a qualcun altro è qualcosa di terribile e inaccettabile; preoccuparsi di non dare fastidio quando si è in un luogo pubblico è fondamentale.

Milano come l’hai ritrovata?

Devo dire che non l’ho trovata male Milano. Sarà che sono rientrato durante il salone del mobile, per cui c’era questo momento cosmopolita e internazionale che mi ha fatto pensare: “ma guarda! Non si sta per niente male a Milano! Quante persone, quanti stranieri”.

Rimpatriati è una rubrica dedicata a chi è tornato a casa e a chi vorrebbe tornare ma non ha ancora trovato il coraggio di fare la valigia. La grafica è di Marisa Tammacco.

Valeria de Bari

2 pensieri riguardo “Un italiano in Giappone o un giapponese in Italia?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *