Una vita tra flamenco e lettere classiche
“Rimpatriati”: la storia di Fran
Io e Francesco abbiamo appuntamento in un bar centrale di Molfetta alle 17.
Lui è in ritardo. Superato il quarto d’ora accademico lo chiamo per chiedergli se si è dimenticato dell’incontro e mi rassicura che sta arrivando.
Guardandolo a prima vista ci si rende subito conto che è un artista.
Ha un aspetto piratesco con quei suoi capelli lunghi e i cerchietti dorati alle orecchie.
Indossa una giacca di jeans con pelliccia. Si scusa per l’ora e ordina un caffè doppio.
Quando hai deciso di andare via e perché?
Partiamo dal presupposto che non me ne sono andato da Molfetta perché la disprezzavo o perché non trovavo il mio posto. Qui stavo benissimo: avevo i miei amici, la mia famiglia, tutto. Avevo anche una grande passione per il flamenco. Studiavo al conservatorio chitarra classica. Ho frequentato i corsi per otto anni. Prima il conservatorio non era considerato università e durava dieci anni con le scansioni d’esame al quinto anno, all’ottavo e al decimo. Studiare chitarra classica però non mi soddisfaceva fino in fondo, amavo il flamenco e mi esercitavo autonomamente.
Da dove nasce questa passione per il flamenco?
Io sono sempre stato un amante della chitarra, strumento che ho iniziato a suonare a 12 anni, forse anche 11. Quando sono cresciuto poi ho sempre fatto parte del giro metal, rock della mia città. All’epoca i vari gruppi affittavano dei locali, delle stanze che venivano trasformate in studio di registrazione: le insonorizzavamo con i cartoni delle uova. C’era un bel movimento underground. Molti dei musicisti cresciuti in questa realtà adesso sono personalità importanti, come Sabino de Bari che è un compositore di musica classica che vive a Londra. Eravamo tutti amici, non c’erano invidie. Eravamo tutti metallari, ci piaceva il trash Metal. Stiamo parlando degli anni ’90: i Metallica e gli Iron Maiden facevano furore.
E cosa c’entra il metal con la chitarra flamenca?
C’entra perché sottostanno allo stesso principio. Mentre con la chitarra classica il tuo spazio di libertà è molto relativo – perché devi interpretare qualcosa scritta da qualcun altro – nel rock e nel flamenco hai una base che puoi sviluppare in modo personale, per comunicare il tuo mondo interiore. Io con la chitarra classica proprio non riuscivo ad esprimermi.
Quando ho ascoltato il CD di Paco de Lucía ho capito che il flamenco avrebbe potuto darmi la possibilità che la chitarra classica mi aveva sempre negato.
Ho iniziato quindi a studiare da autodidatta finché ho raggiunto un livello “decente” che mi permetteva di esibirmi e lavorare come musicista.
Facevo serate di pizzica pizzica, suonavo con persone che ancora vivono di musica come Giovannangelo de Gennaro – ideatore del festival Viator e fondatore degli Ensemble Calixtinus che fanno musica medievale – e Nicola Nesta, grande chitarrista di liuto medievale, oud arabo. Una delle esperienze più belle che io abbia fatto qui in Italia è stata fare parte della Mizan Orchestra, un’orchestra multietnica dove suonavo la chitarra flamenca, c’era un clarinettista albanese, un ragazzo arabo che cantava… Abbiamo fatto vari concerti e abbiamo partecipato al Festival del Mediterraneo. C’era Giovanni Astorino, un grande violoncellista che poi è stato bassista di Caparezza, al violoncello. Ma io volevo di più, volevo imparare il flamenco vero. Quindi sono andato in Spagna a Granada e mi sono iscritto al Conservatorio spagnolo dopo aver superato un esame di ingresso.
Quindi dopo anni di Conservatorio qui in Italia ti sei iscritto al Conservatorio spagnolo.
Sì. Nel frattempo mi ero anche laureato in Lettere Classiche e avevo superato l’esame alla Ssis, la scuola di specializzazione che si frequentava per potersi iscrivere alla graduatoria per fare l’insegnante. Io avevo superato sia l’esame di Stato per insegnare Greco sia quello per insegnare Latino. A partire dal 2008 sono entrato nelle Gae (Graduatorie a esaurimento ndr). Le chiamate per lavorare a scuola non arrivavano, quindi sono partito per Granada dove mi sono diplomato in chitarra flamenca al Conservatorio.
Considera che l’Europa in realtà non esiste per noi poveri mortali. Gli unici vantaggi che abbiamo sono l’assenza di controllo alla frontiera e il non dover fare il cambio di moneta. Per i titoli di studio ogni Paese ragiona a modo suo, quindi quando io sono andato in Spagna ho dovuto rifare l’esame di solfeggio, mi sono dovuto sedere in un banco da bambino, dove neanche entravo, per rifare questo esame, perché lo stesso esame fatto in Italia non veniva convalidato.
Al Conservatorio ho avuto il privilegio di avere un’insegnante donna, Pilar Alonso. Nel flamenco, almeno dal punto di vista chitarristico, c’era ancora del machismo: le donne potevano cantare e ballare ma non suonare la chitarra. La mia insegnante mi raccontava che spesso durante le feste alcuni vecchi le toglievano la chitarra dalle mani. Adesso questa cosa fortunatamente si sta superando.
Lei era una grandissima insegnante, le voglio molto bene.
Il mio sogno era quindi rimanere in Spagna, quando mi vedevo proiettato nel futuro mi vedevo lì.
Cosa facevi in Spagna oltre a frequentare il Conservatorio?
Lavoravo in un negozio di chitarre, in un atelier in cui si vendevano chitarre fatte a mano. In Andalusia i turisti che arrivano pensando di trovare i toreri sono chiamati guiri. Il mio compito nella Guitarreria Ferrer, la più antica di Granada, era attirare i guiri. La proprietaria nel negozio mi ha dato questo lavoro che consisteva nel suonare le chitarre vendute nella bottega. I potenziali acquirenti sentendo il suono avrebbero testato immediatamente la buona fattura degli strumenti.
Mi sembra un’ottima strategia di marketing…
Sì ne ho vendute parecchie (ride ndr). In più mi muovevo nell’ambito flamenco di Granada. C’è una zona dove sono concentrati tutti i tablao, ovvero dei locali dove si mangia, si beve e si assiste allo spettacolo di flamenco. Chi vive di flamenco fa uno spettacolo anche due, tre, quattro volte a sera. Poi a volte arriva la possibilità di partecipare come musicista a grossi concerti o a workshop nel mondo.
Quindi ti vedevi proiettato in questo mondo.
Sono sempre stato onesto con me stesso. Io avevo chiaro nella mente che se volevo fare il musicista dovevo rinunciare a una vita fatta di routine e di stabilità economica. Non avrei mai avuto i benefit di chi ha uno stipendio fisso. In spagnolo si dice “Pan para hoy, y hambre para mañana” che significa “pane per oggi e fame per domani”. Oggi sai come va, domani non si sa.
Non avevo nessun problema, mi ero inserito nell’ambiente, suonavo, venivo chiamato a volte nei tablao. Avevo anche conosciuto una ragazza cinque anni più grande di me che faceva la ballerina di flamenco in Germania a Düsseldorf e che ogni anno veniva a Granada in vacanza, “per abbeverarsi alla fonte”. Ci siamo incontrati, ci siamo messi insieme e abbiamo deciso di vivere una storia a distanza vedendoci spesso, ogni mese.
Fino a quando – era un sabato pomeriggio di giugno, tre giorni prima avevo fatto l’esame finale del Conservatorio e l’avevo superato con 10, il voto più alto – mi arriva al negozio la telefonata della mia compagna che mi dice di essere incinta. Mi stava per venire un attacco di cuore, le ho chiesto di darmi due giorni per metabolizzare la notizia. Passati i due giorni abbiamo deciso insieme che mi sarei trasferito in Germania. A fine 2011, dopo quattro anni in Spagna, senza conoscere mezza parola di tedesco sono andato a Düsseldorf.
Cosa succede in Germania?
Al Conservatorio tedesco non potevo convalidare il mio titolo, perché non esiste la chitarra flamenca come strumento accademico in Germania. Avrei potuto convalidare il titolo universitario, ma non conoscevo il tedesco. Con un figlio in arrivo poi non potevo perdere tempo. Ho imparato la lingua come hanno fatto i primi immigrati, in strada. Pensare di poter vivere facendo il musicista era impensabile perché il giro del flamenco era estremamente chiuso e non ti permettevano di entrarci, non ti chiamavano mai per fare gli spettacoli.
Ma non mi interessava, perché nel momento in cui sono diventato padre qualcosa è scattato istintivamente nella mia mente. Tuttora mia madre mi dice che sono estremamente protettivo nei confronti di mio figlio. Il mio unico interesse era avere un’entrata economica per il sostentamento di mio figlio.
Quindi il primo lavoro che ho trovato è stato da barista, pur non avendolo mai fatto in vita mia. C’era lo stereotipo dell’italiano che sicuramente avrebbe fatto un buon caffè. Contestualmente ho iniziato a dare lezioni private di chitarra flamenca. ll mio nome esotico attirava molto gli studenti. Sono arrivato ad avere 45 studenti e a un certo punto non avevo più tempo per lavorare al bar.
Successivamente mi si è aperta la possibilità di lavorare come chitarrista fisso per accompagnare tutte le lezioni in una grande scuola di flamenco a Mannheim (a 350 km da Düsseldorf), in un altro land. Io speravo che la mia ex compagna si trasferisse con me, ma così non è stato.
In questa città sono entrato nella comunità flamenca, ho lavorato per sei anni e ho collaborato con persone importanti come Luis de Luis, Andrés Peña, Carmen Ledesma, Joaquin Ruiz, Pilar Ogalla Martinez, Rafael de Utrera, Irene La Sentío, Juana Amaya. Ho avuto la fortuna di calcare palcoscenici importanti.
Eri felice quindi mi verrebbe da dire.
No, affatto, perché mi mancava mio figlio. Quando è nato lui ho scoperto di avere un grande istinto paterno.
In Germania un musicista guadagna uno stipendio dignitoso, meno di 250 euro a serata non ti danno. Considera che le serate però si fanno nel weekend e io nel weekend ho sempre scelto di andare da mio figlio a Düsseldorf. Nel frattempo io e la mia compagna ci siamo separati, perché lei non ha mai voluto trasferirsi a Mannheim.
Poi c’è stato il Covid e la scuola di flamenco ha chiuso, per questo ho deciso di giocarmi la carta insegnamento. Ho mandato tutti i miei certificati al Ministero tedesco che mi ha risposto così: “Noi le riconosciamo i suoi titoli se rifà tutti gli esami del Referendariat (il corrispettivo tedesco della Ssis) tranne l’esame finale”. Ho avuto l’ennesima riprova che l’Europa non esiste. La cosa positiva della Ssis tedesca è che ti pagano un minimo per farla, perché fai un periodo di tirocinio nella scuola. Nonostante lo sconforto e la delusione nei confronti del concetto di Europa ho accettato di seguire questo percorso e ho iniziato il Referendariat.
Com’è andata questa esperienza?
La mia sfortuna è stata quella di essere assegnato a una scuola arcivescovile. Mi hanno fatto un interrogatorio sulla mia prima comunione e sui sacramenti in generale. Se suonavano la campana durante la lezione dovevi lasciare tutto e andare a messa. I ragazzi poi, appena diventati maggiorenni, arrivavano in Porsche, in Maserati.
La preside mi “ha odiato a prima vista” e ben presto sono entrato anche nelle antipatie del tutor, che veniva a scuola sempre in giacca e cravatta, con la borsa di pelle come quella dei medici che venivano a fare le visite in casa. Questo professore mi mandava delle mail in cui mi diceva che il mio modo di insegnare era troppo italiano, che i ragazzi ridevano di me per il mio modo di parlare … scriveva cose che suonavano anche un po’ razziste.
Insegnavo due materie: musica e latino. Mentre in musica non c’era nessun problema, in latino subivo mobbing. La lezione/esame di musica l’ho superata a pieni voti. Nella lezione/esame di latino dovevo spiegare l’accusativo+infinito, che è un modo per tradurre la proposizione dichiarativa, il discorso indiretto. Durante la discussione il tutor ha detto che i contenuti erano sbagliati, nonostante io li avessi presi dal libro adottato dalla scuola. Inoltre, per smentirmi, ha sostenuto che la dichiarativa non è una proposizione secondaria, Keine Nebensatz.
Ora se tu prendi un qualsiasi libro di grammatica vedrai che la proposizione dichiarativa è inserita tra le proposizioni subordinate. A queste parole mi sono alzato, gli ho stretto la mano e me ne sono andato. C’erano gli estremi per fare una denuncia, ma ho lasciato perdere. Sono poi entrato come segretario in una scuola di lingue e devo dire che era uno spasso. Finalmente avevo raggiunto un equilibrio e soprattutto ero vicino a mio figlio.
Quando sei rimpatriato in Italia?
Mentre andavo a lavoro mi è arrivato un messaggio da una mia amica che mi avvisava della riapertura delle Gae e del fatto che io fossi il secondo ad avere diritto a entrare di ruolo nella scuola italiana. Io pensavo che mi stesse prendendo in giro. Sono andato a controllare ed era tutto vero, era arrivato il mio momento. Ho preso una decisione che non è stata semplice. Non so neanche se sia stata giusta, perché la devo ancora storicizzare, deve passare del tempo. Sono venuto qui in Italia e oggi sono docente di latino e greco.
Ti sei pentito fino ad ora?
Non lo so. Mi piace stare con i ragazzi, con loro ho un bel rapporto. Qui poi fortunatamente la scuola non è come quella tedesca, anche se sta andando nella stessa direzione…però sono lontano da mio figlio. Fino ad ora ho potuto usufruire dei congedi parentali, però da questo mese in poi vedremo. Lui ha vacanze ad ottobre, aprile, Natale, Pasqua. L’estate fino a quando vorrà starà sempre con me.
La lontananza da mio figlio è il vero punto dolente, però mi consola il fatto che i ragazzi in Germania diventano prima indipendenti. Lui a 11 anni si muove da solo col tram in città, se lo vado a prendere da scuola non puoi capire … quando era più piccolo lo minacciavo dicendogli che gli avrei tolto l’ipad, ora la minaccia è che lo vado a prendere da scuola. Per i tedeschi è umiliante farsi vedere a 11 anni con un genitore davanti a scuola.
Bene o male sei soddisfatto della tua vita qui?
Mi sto ancora abituando. Oggi sono tranquillo perché mio figlio è qui con me, ma so già che quando lui tornerà in Germania non sarò molto sereno.
Come hai ritrovato la tua città di origine?
Questa città è molto più spenta rispetto a quando me ne sono andato. Io non avevo il cellulare né Fortnite. Per vedere i miei amici ero costretto a uscire. Io uscivo ogni sera con la tramontana, la pioggia, la neve. Vedevo i miei amici, ci prendevamo il caffè o una birra, chiacchieravamo, giocavamo a calcetto. Adesso è tutto diverso. Penso che sia una questione generazionale. Il digitale può portare all’isolamento.
Com’è stato il rientro?
Il rientro non è stato traumatico, perché qui ho ritrovato i miei amici. Ognuno ha le sue responsabilità e i suoi impegni quindi non ci vediamo ogni sera come un tempo, però i miei amici mi hanno dato il calore umano di cui avevo bisogno. Abbiamo i figli della stessa età che sono diventati amici tra di loro e siamo tutti una grande famiglia.
Rimpatriati è una rubrica dedicata a chi è tornato a casa e a chi vorrebbe tornare ma non ha ancora trovato il coraggio di fare la valigia. La grafica è di Marisa Tammacco.
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Valeria de Bari
Un pensiero su “Una vita tra flamenco e lettere classiche”